Mail-etiquette: quanto è importante?

Quante volte vi è capitato di ricevere una mail e, giusto tre secondi dopo averla letta, le vostre sensazioni sono state nell’ordine: «Adesso esco e lo prendo a schiaffi!». «Cosa gli ho fatto di male?». «Che problema ha questo con il mondo?». Purtroppo, è sempre più frequente ricevere mail assolutamente discutibili, per contenuto e forma. Spesso si dimentica che – sebbene siano diventate uno strumento di comunicazione veloce e pop – sono nate per sostituire le lettere. Ma soprattutto ci si dimentica che la velocità di scambio non significa assenza di regole.

La prima, molto semplice: iniziare con «Buongiorno/Buonasera». A maggior ragione se con il destinatario non si ha un rapporto di amicizia o di conoscenza approfondita. Quando entrate in un negozio, in un bar o in un ufficio non salutate? Ecco, è esattamente la stessa cosa. I tempi e i modi verbali, poi, meritano un capitolo a parte. La lingua italiana è bellissima perché piena di sfumature. Ma molti se ne dimenticano e, come accade in un dialogo a voce, optano per forme quasi imperative: fai, dici, scrivi, metti. Con un impatto, per chi legge, durissimo.

E in questo discorso si inserisce anche il tema della scelta dei toni. Una scelta a cui tutti dobbiamo porre la massima attenzione, per le comunicazioni verso l’interno e verso l’esterno. Sbagliare il tono significa mandare un messaggio errato; mandare un messaggio errato può creare grossi problemi e può far perdere credibilità. Ci avete mai pensato? Grazie e per piacere sono termini aboliti dai nostri vocabolari? No, giusto? Siamo tutti d’accordo? Benissimo! Usiamoli, a voce e anche nelle mail. Ormai tutto viene dato per scontato: il fornitore, poiché viene pagato, deve lavorare come un mulo; il dipendente, anche lui pagato, deve essere sempre disponibile. Aggiungere un “grazie” o un «per favore» può davvero fare la differenza e cambiare radicalmente il modo in cui una richiesta, magari particolare o complicata, viene accolta.

La lunghezza dei testi, infine, è un aspetto da non sottovalutare. Mail da 50mila battute, senza capo nè coda. Quelle che ti costringono a rileggere almeno tre volte per capire il senso. Una telefonata, in questi casi, no? No, ovviamente. Perché verba volant e scripta manent. E allora, se la parola scritta ha un peso così significativo perché non porre attenzione a quello che si scrive e a come si scrive?

Vi faccio due esempi. Il primo: il capo che ha poco tempo e deve chiedere al collaboratore di svolgere un determinato compito. Manda una mail con una sola parola: il nome del documento tipo «albachiara.doc». E il collaboratore cosa può pensare? Vorrà il testo della canzone di Vasco, probabilmente… Il secondo, il capo entra, dice «entro tre ore mi serve questo» e se ne va. Mi è capitato che un mio ex capo mi chiedesse, naturalmente in una mail di neanche due righe, di preparare il budget con una proiezione dei cinque anni successivi. Avevo tre ore di tempo. Non avevo, però, indicazioni aggiuntive. Nessuna spiegazione. Nessun perché. Risultato? Ho fatto il piano, nel modo migliore possibile. Peccato fosse inutile e non concertato.

Io credo, al di là delle singole situazioni che possono magari anche strappare un sorriso, che stiamo facendo un po’ di confusione sull’uso dei vari mezzi – che oggi sono davvero tanti – di comunicazione. Ci sono gli strumenti meno formali (pensiamo a WhatsApp o a Messanger, ad esempio) che, grazie agli emoji, permettono di mandare messaggi che difficilmente possono essere interpretati in modo sbagliato. Se in una conversazione informale scriviamo “NO” e aggiungiamo il pollice verso, non succede nulla di grave. Ma se a farlo è, invece, un capo, un cliente o un collega, attraverso una mail, forse il risultato non è proprio lo stesso.

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Head hunter, una professione che cambia con le tecnologie

Avremo ancora bisogno degli Head hunters? La risposta a questa domanda è sicuramente affermativa. Tuttavia c’è un “però” che non possiamo ignorare: l’uso sempre più frequente della tecnologia e degli algoritmi per l’estrazione e l’elaborazione dei dati. Se è innegabile, infatti, che il mondo delle risorse umane sia fatto quasi completamente di relazioni personali, è altrettanto vero che il comparto dell’HR TECH sta crescendo sempre di più: 2,4 miliardi di dollari di investimenti in questo ambito nel 2015 e 2,39 miliardi stimati per il 2016. E probabilmente questa cifra è destinata a crescere.

La gestione e l’elaborazione dei dati – non solo in ambito HR – soprattutto quando i numeri sono elevati (pensiamo a qualsiasi database) sono oggetto, da tempo ormai, di processi di automatizzazione. I CRM permettono di effettuare estrazioni con maggiore facilità e velocità. Ma la semplice estrazione non può bastare. I dati, infatti, devono essere interpretati correttamente. E quando si parla di risorse umane, questa interpretazione deve essere molto accurata e una macchina non può sostituire l’uomo.

Per capire se le informazioni inserite nei cv sono vere – giusto per fare un esempio concreto – non c’è altra strada che uno scambio tra candidato e selezionatore. Uno scambio che può certamente avvenire via Skype, via telefono o attraverso i molteplici strumenti che la tecnologia mette a disposizione, ma che non può essere completamente eliminato dal processo di selezione. L’utilizzo di particolari strumenti, dunque, deve essere visto come un modo per snellire e rendere efficienti i processi di selezione, non per sostituire completamente l’uomo.

Un esempio concreto: ci sono alcuni algoritmi che, attraverso la ricerca semantica, permettono di razionalizzare i database di CV ed estrarre le informazioni necessarie da ogni candidato in modo automatico, anche quando non compaiono le parole chiave “classiche” (ognuno può descrivere in modo diverso le proprie competenze). Oppure attraverso un altro algoritmo è possibile, ad esempio, estrarre le soft skills dei candidati (che solitamente sono nella parte finale del cv) in modo che il selezionatore, interrogando il database, sia in grado di creare team senza conflitti per le incompatibilità caratteriali dei membri. Un altro grande problema è, inoltre, trovare i candidati che siano disposti a lavorare in una certa città. Attraverso la geolocalizzazione, dunque, è possibile avere solo i cv dei candidati interessati a quell’area.

In EasyHunters, facciamo proprio questo: sfruttiamo la tecnologia per rendere l’iter di selezione efficiente. Il normale processo ha sempre costretto i candidati a spostarsi anche per il primo colloquio conoscitivo con evidenti – e inutili – sprechi, di denaro e di tempo. Grazie agli strumenti digitali, ora, è possibile eliminare queste distanze. Ma fare un colloquio al telefono, via Skype o Facetime, non significa che sia meno approfondito o di minore qualità. I recruiter di EasyHunters incontrano i candidati online – esattamente come accade, milioni di volte, quando si fanno dei meeting con i colleghi dall’altra parte del mondo – ma il colloquio è esattamente identico a quello che farebbero se l’incontro avvenisse nei nostri uffici.

Io credo, quindi, che la tecnologia debba essere utilizzata come strumento per gli HR e non percepita come una minaccia. Il talento sarà sempre valutato da una persona. Quello che cambierà sarà semplicemente il “luogo” del colloquio.

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Il team non funziona: e se fosse anche un problema di leadership?

Non è un dipendente capace»; «No, non è un buon capo!». Quante volte abbiamo assistito a dialoghi di questo tipo? E il dubbio, in questi casi, è sempre uno solo: chi ha ragione? Da una parte ci possono essere manager che non sono in grado di gestire i propri team e tirare fuori, da loro, il meglio. Dall’altra, però, ci possono anche essere dipendenti che – per un motivo o per un altro – non dimostrano il proprio impegno.

Il compito di ogni buon manager è proprio questo: capire le motivazioni (se ci sono) che portano i dipendenti a non performare come ci si aspetterebbe e metterli nelle condizioni di lavorare al meglio. In base alla mia esperienza, ho capito che le situazioni-tipo che generano questo tipo di conflitti sono quasi sempre le stesse. E quasi tutte hanno una soluzione semplice ed immediata, in grado di riportare la serenità negli uffici.

Quella più banale è legata alla gestione del tempo. Capita spesso che qualcuno non rispetti le scadenze assegnate. In questi casi, l’aspetto fondamentale è capire da cosa dipende questo ritardo. E se tutto fosse legato ad una comunicazione poco efficace? Se dipendesse dal fatto che non arrivano le indicazioni giuste per poter comprendere e svolgere il lavoro? Questo è un punto cruciale: un buon manager deve essere in grado di fornire tutte le informazioni e gli strumenti necessari affinché il team possa portare a termine i compiti assegnati e rispettare le scadenze.

Un altro aspetto che può rivelarsi problematico, invece, è legato alle relazioni all’interno dei team. Ecco perché è fondamentale che ogni manager sia in grado di capire – già in fase di colloquio – gran parte degli aspetti caratteriali ed evitare di assumere un candidato che, molto probabilmente, non sarà in grado di integrarsi nel team. Può succedere, comunque, che qualche conflitto sorga strada facendo. In questo caso, il manager deve assolutamente capire – nel più breve tempo possibile – da dove abbia origine.

Se la persona non riesce a lavorare in modo efficace in gruppo, ad esempio, può non dipendere semplicemente da differenze caratteriali o da incapacità. Può succedere che dia il meglio di sé quando lavora da solo. Un buon manager, dunque, deve comprendere questa situazione e fare in modo che tutti siano in grado di lavorare nelle condizioni per loro più favorevoli. A questo si collega, infine, un altro aspetto che non deve mai essere sottovalutato. Quando le performance di qualcuno non migliorano – o lo fanno più lentamente di quanto ci aspettiamo – non è sempre colpa della scarsa volontà o, peggio ancora, della mancanza di competenze tecniche. Ho imparato, nel corso della mia carriera, che in moltissimi casi di questo tipo c’è un solo problema: l’assenza di feedback e di linee guida.

Quando una persona non riesce a capire cosa sta facendo bene e cosa male, dove può migliorare o dove ha raggiunto il livello che ci si aspetta da lei, non sarà mai in grado di crescere professionalmente. Credo, quindi, che prima di considerare un dipendente poco capace, svogliato o come elemento negativo del team, si debba fare un’analisi molto approfondita della situazione e trovare una soluzione. In fondo, gestire le persone e tirar fuori da loro il meglio è compito del manager.

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